Letteratura, quando arte e gioco d’azzardo sono una cosa sola

A volte anche i settori più impensabili presentano dei legami che mai nessuno avrebbe potuto immaginare. Proviamo a pensare a uno di quelli che stanno avendo più successo nel corso degli ultimi tempi. Il riferimento è inevitabilmente al gioco online, che sta crescendo letteralmente a dismisura nel corso degli ultimi anni.

Non è un caso che, al giorno d’oggi, le piattaforme online rappresentino la soluzione preferita per tante persone per puntare e scommettere sullo sport, piuttosto che su tanti altri giochi d’azzardo. Merito anche della possibilità di scegliere tra i migliori bonus benvenuto casino, che offrono la possibilità di iniziare a puntare senza dover tirar fuori i soldi di tasca propria. Tutto varia, nella maggior parte dei casi, in base al primo deposito che viene effettuato sul conto di gioco da parte degli utenti, ma è chiaramente uno di quei fattori, specialmente il bonus di benvenuto, che possono incidere notevolmente sulla scelta della piattaforma dove registrarsi e cominciare a scommettere.

Il celebre romanzo di Fedor Dostoevskij

Anche se non si direbbe, anche il gioco d’azzardo ha un legame particolarmente stretto con l’arte. Certo, non si tratta di un legame che si potrebbe definire particolarmente attuale, ma più che altro come qualcosa che ha fatto la storia. Se siete rimasti affascinati dalla tecnologia nel mondo del gioco d’azzardo, non potrete che rimanere a bocca aperta di fronte al modo con cui l’arte ha voluto riprodurre alcune delle situazioni più tipiche che si possono ritrovare su un tavolo da gioco.

Nello specifico, sono essenzialmente dipinti, ma anche numerose opere della letteratura. Cominciamo proprio dai romanzi, per riuscire a individuare delle tracce piuttosto importanti relative al gioco d’azzardo. Sono numerosi, infatti, i romanzi che trattano di questa tematica e, spesso e volentieri, lo fanno in maniera decisamente viscerale.

Infatti, in vari romanzi vengono affrontati dei temi che solamente un giocatore esperto e competente può conoscere. Uno dei più clamorosi esempi di romanzi ispirati al gioco d’azzardo è sicuramente il capolavoro di Fedor Dostoevskij, intitolato “Il Giocatore”.

Ebbene, all’interno di questo spettacolare romanzo c’è la possibilità di ammirare e di rivivere tutte quelle esperienze che sono state affrontate ad un autore, Dostoevskij, che è sempre stato particolarmente vicino al gioco d’azzardo, al punto tale da esserne notevolmente affascinato. Non solo, visto che Dostoevskij aveva una vera e propria dipendenza rispetto al gioco d’azzardo.

Non è un caso, che proprio questo romanzo venne scritto da parte dell’autore russo con l’unico intento di provvedere a ripianare i vari debiti di gioco che aveva contratto. Un autore geniale, che fu in grado di scrivere questo spettacolare romanzo solamente in 28 giorni, nemmeno un mese. Uno dei più importanti capolavori che fanno parte della letteratura dell’Ottocento.

Gli altri esempi del legame tra gioco d’azzardo e letteratura

Quello del gioco d’azzardo è un argomento che ben si presta ad essere sfruttato all’interno di un gran numero di opere letterarie. Non è un caso, quindi, che ci siano tanti altri romanzi che ne parlano, anche in maniera piuttosto approfondita.

Giusto per citare qualche altro romanzo che ha sicuramente creato scalpore e fatto la storia, dobbiamo sottolineare l’importanza dell’opera di Jonathan Lethem, che ha realizzato il libro “Anatomia di un giocatore d’azzardo”, così come l’opera di Luca Canali, intitolata “Autobiografia di un baro”.

Ci sono anche altri romanzi che sono in grado di attirare un notevole interesse e che riguardano sempre il mondo del gioco d’azzardo. Stiamo parlando, ad esempio, di un’opera di Charles Bukowski, che ha scritto “Ce l’hanno tutti con me”. Tra gli altri capisaldi della letteratura, in modo particolare di quella italiana, troviamo anche “Il fu Mattia Pascal”, scritto da Luigi Pirandello, così come la commedia “Il giocatore”, realizzata da parte di Carlo Goldoni.

Gli intrecci tra gioco d’azzardo e arte: i dipinti più famosi

Ci troviamo in un periodo particolarmente complicato, in cui la tecnologia e il web stanno dominando in qualsiasi settore possibile e immaginabile. Basti pensare a quello del gioco d’azzardo, dove sono sempre di più le piattaforme online su cui è possibile creare un conto di gioco e cominciare a scommettere. Puntare online è diventato un gioco da ragazzi, ma è fondamentale scegliere sempre una piattaforma che sia notevolmente affidabile.

Per questo motivo, anche chi ha intenzione di giocare a tombola online, dovrà necessariamente accertarsi che la piattaforma scelta sia sicura a sufficienza. In che modo? Verificando la presenza del marchio AAMS o ADM, che testimonia semplicemente come all’interno dello stesso portale si operi in maniera del tutto legale e rispettosa della normativa italiana attualmente in vigore in relazione al gioco d’azzardo sul web.

Nonostante attualmente il gioco d’azzardo si sviluppi prevalentemente online, in realtà le origini sono particolarmente antiche. Infatti, pare che sia stato inventato oltre 800 anni fa. Sembra che tutto si sia sviluppato in Cina intorno al 1200 e da lì, poi, ha cominciato a diffondersi un po’ in tutto il resto del mondo.

Inizialmente, è abbastanza facile mettere in evidenza come tale gioco era una sorta di esclusiva all’interno delle classi sociali meno ricche. Ebbene, succedeva piuttosto di frequente che proprio tanti nobili avevano l’abitudine di farsi ritrarre all’interno di bellissimi dipinti, proprio mentre erano intenti a divertirsi con il gioco d’azzardo.

I dipinti di Georges de La Tour e Caravaggio

Come detto, il legame tra gioco d’azzardo e arte si è fatto sempre più stretto e ci sono numerosi dipinti che lo testimoniano alla perfezione. Ce ne sono alcuni che riguardano proprio scene tratte da momenti in cui varie persone si sono cimentate con il gioco d’azzardi.

Alcuni di questi quadri sono particolarmente famosi e hanno raggiunto un valore notevole, pari addirittura a diversi milioni di dollari. Tra i dipinti che hanno riscosso maggior successo tra il pubblico troviamo sicuramente quello realizzato da Caravaggio, ovvero “I bari”. Stiamo parlando di un quadro che venne creato negli ultimi anni del 1500.

Ebbene, all’interno de “I bari”, si possono notare proprio due uomini mentre sono intenti a giocare a carte e una terza persona che, invece, fa di tutto per provare a sbirciare le carte che vengono tenute in mano dai primi due.

Un altro dipinto, che ha un nome effettivamente molto simile, ha ottenuto un grandissimo successo nel corso degli anni. Stiamo facendo riferimento a “Il baro”, realizzato da parte di Georges de la Tour. Un quadro che è stato realizzato nel periodo che va dal 1626 al 1629 e che va a ritrarre delle donne intente a giocare sempre a carte. All’interno del dipinto c’è un uomo, per l’appunto il baro, che si sta per sfilare due assi della cintura, approfittando del momento di distrazione generale al tavolo.

La creazione di Steen Jan

Un altro dipinto che celebra in maniera meravigliosa la commistione tra arte e gioco d’azzardo è sicuramente quello di Steen Jan, che è stato ribattezzato “Discussione durante una partita a carte”. Si tratta di uno dei dipinti più belli e importanti del Secolo d’Oro Olandese. Interessante notare come questo dipinto venne scoperto solamente verso la seconda metà del XVII secolo.

È facile mettere in evidenza come, all’interno del quadro, venga raffigurata una discussione tra due giocatori di carte. Un capolavoro a tutti gli effetti quello realizzato da parte di Steen. L’obiettivo, in fin dei conti, era quello di riportare su tela delle emozioni e delle situazioni che avvenivano piuttosto di frequente nella vita di tutti i giorni di quei tempi.

Il Museo Santa Giulia di Brescia

Il Museo Santa Giulia è il più importante museo della città di Brescia e dove si è tenuta la mostra di Tiziano del 2018; si trova lungo il percorso dell’antico decumano massimo, presso il monastero di santa Giulia della Brixia romana, fatto costruire in epoca in cui governavano i Longobardi, da Re Desiderio.
Successivamente nel corso dei secoli seguenti è stato ampliato e modificato; sotto il museo si trova una zona che pullula di reperti archeologici di differenti epoche storiche, in particolar modo è possibile ammirare le domus dell’Ortagia che appartengono all’epoca romana e che sono state perfettamente conservate.
Il Museo Santa Giulia è formato da tutti gli edifici che fanno parte dell’antico monastero come la Chiesa di Santa Giulia, la Chiesa di Santa Maria in Solario e il Coro delle monache; il museo è stato inaugurato nel mille novecento ottantotto e ogni anno conta la presenza di più di cento mila presenze, con il picco massimo registrato nel duemila sedici con la presenza di quasi cento cinquanta mila visitatori.

I settori del museo.

Il Museo santa Giulia di Brescia è suddiviso in diversi settori; nel semi interrato troviamo la zona dove sono presenti opere che raffigurano l’evoluzione che hanno subito gli insediamenti umani nel territorio di Brescia a partire dal terzo millennio avanti Cristo, fino ad arrivare al periodo dell’età del ferro.

I reperti in mostra sono stati rinvenuti proprio nella città e nel territorio circostante; inoltre è possibile ammirare diversi oggetti risalenti all’età protostorica in particolar modo quelli relativi alla dominazione celtica dal quarto secolo avanti Cristo, fino al secondo secolo avanti cristo.

Nella zona in cui viene rappresentata l’età preistorica, si possono osservare boccali, tazze ed altri oggetti risalenti all’età del bronzo, ceramiche e vasi risalenti all’età del ferro, una tomba a cremazione dell’età del bronzo, strumenti da lavoro e vasi risalenti al terzo millennio avanti cristo; ed troviamo ceramiche, rosai,punte di freccia, oggetti in osso risalenti alla tarda età del bronzo.

Nella zona che riguarda l’età protostorica si trovano invece ornamenti maschili e femminili risalenti al terzo e secondo secolo avanti cristo, un elmo in bronzo del primo secolo avanti cristo, un corredo funerario appartenente ad un guerriero del secondo secolo avanti cristo, oltre che ad un sarcofago realizzato in terra cotta e risalente al terzo secolo avanti cristo.

La zona del Museo santa Giulia di Brescia dedicata alle opere di epoca romana si divide a sua volta in quattro settori; uno dedicato alla domus dell’Ortigia, uno dedicato alle testimonianze ritrovate della presenza romana in territorio bresciano, il terzo settore dedicato ad oggetti funerari e lapidi e per ultimo il settore dedicato alle iscrizioni dove vengono custoditi numerosi documenti risalenti al periodo che va dal quinto al primo secolo avanti cristo.

Nell’area della domus dell’Ortagia sono custoditi vari arredi recuperati e risalenti al terzo secolo avanti cristo, oggetti di uso quotidiano oltre che un bauletto ed una cassaforte risalenti sempre a quel determinato periodo; inoltre qui si possono ammirare idoli e statuette realizzate totalmente in bronzo, frammenti di sculture, di mosaici e di affreschi provenienti dalla Domus di via San Rocchino risalenti al secondo secolo dopo cristo e dalla Chiesa di Santa Giulia.

Nel settore dedicato all’età dell’alto medio evo si possono ammirare si possono ammirare vari oggetti che testimoniano la presenza della dominazione Carolinga e longobarda tra i secoli sesto ed undicesimo, prima della costituzione dei comuni.

Tra queste importanti opere troviamo fibule realizzate completamente in argento risalenti al sesto secolo, un corredo funerario femminile del sesto secolo, frammenti di sculture provenienti dall’Abbazia di Leno risalenti al decimo secolo, oltre che all’opera del gallo rampante realizzata in oro rame ed argento dell’anno ottocento trenta e spade e scudi in bronzo e ferro risalenti al settimo secolo.

La zona del Museo di santa Giulia di Brescia dedicata al basso Medio evo, o chiamata anche età dei comuni e delle signorie, espone opere che risalgono al periodo della nascita del comune di Brescia, fino alla dominazione da parte della Repubblica di Venezia. Nelle varie aree si possono trovare opere appartenenti al potere politico come ad esempio capitelli in marmo rosa di Verona, un basso rilievo raffigurante San faustino in groppa ad un cavallo realizzato in marmo di Botticino, varie monete in oro e un ceppo con stemma della famiglia Della Scala e dei Visconti, realizzato completamente in marmo di Botticino. Le opere presenti ed appartenute al potere ecclesiastico sono frammenti di sculture e marmi provenienti dall’Abbazia di Leno, la statua in marmo di Botticino che raffigura Bernardo Maggi proveniente dal Convento di san Barnaba e la statua in marmo del cristo Benedicente tra i due santi Marziale e Vitale, proveniente dalla Chiesa abbaziale e risalente alla fine del dodicesimo secolo.

Inoltre presso il Museo santa Giulia sono esposte diverse opere di Francesco filippini tra cui Figura di Vecchio, Il Torrente, Fulvia e Cicerone, Paesaggio di Montagna e Ritratto di Giulia Ferretti Ferri.

La Chiesa di santa Maria In Solario.

Questa chiesa, che fa parte del comprensorio del Museo Santa Giulia di Brescia, fu costruita intorno al dodicesimo secolo come oratorio gestito in principio dalle monache; ha la pianta quadrata e forme romaniche, con le murature massicce realizzate in conci di medolo. Nella muratura sono incorporate iscrizioni romane e al suo interno si trova una scala che collega le due parti dell’oratorio.

Al piano terra si trova un’ara romana che ha anche funzione di pilastro centrale; qui si possono ammirare oggetti dedicati al culto delle reliquie come ad esempio la Lipsanoteca, ovvero una cassetta realizzata in avorio risalente al quinto secolo dopo cristo e la croce del reliquiario realizzata in oro, pietre e perle risalente al decimo secolo dopo cristo.

Al piano superiore, sotto le pareti affrescate da Floriano Ferramola, si può osservare una rara ed unica opera in oro risalente all’età carolingia nel nono secolo, la Croce di Desiderio.

Il Coro delle Monache.

Coro Monache bresciaIl coro delle monache, che si trova all’interno del Museo di Santa Giulia di Brescia, è un grande ed unico ambiente dai soffitti e dalle pareti affrescate dove le monache benedettine del convento di Santa Giulia assistevano alle funzioni religiose, senza essere viste. Costruito tra il quattro cento e il cinque cento, si snoda su due livelli; le pareti laterali e la parete principale della zona orientale sono affrescate con dipinti di Paolo Da Caylina il giovane e di Floriano Ferramola.

Questi dipinti affrescati rappresentano il tema della salvezza con scene del periodo della vita infantile di Gesù, quello della passione di cristo e della sua resurrezione.

Chi era Santa Giulia?

Santa Giulia, martire e vergine, fu venduta come schiava in seguito all’invasione di Cartagine, la sua città, da parte dei Barbari; durante il tragitto la nave del suo padrone Eusebio si arenò in Corsica dove Giulia venne torturata e crocifissa a causa della sua fede cattolica cristiana.
Il suo corpo fu sepolto sull’Isola Gorgona dai monaci e successivamente trasferita a Brescia per volere di Desiderio, Re dei Longobardi.

Frasi d’artista: Tiziano e altri aforismi legati all’arte

Ammettiamolo, le grandi frasi ad effetto ci colpiscono sempre; è capitato a tutti di farsi bello tirando fuori dal cilindro una frase di un importante artista spacciandola per nostra. Si rimane sempre impressionati dalla saggezza che i personaggi del mondo dell’arte riescono a tirare fuori grazie alla loro sensibilità nel cogliere eventi o persone che la vita presenta loro. Qui, in particolar modo, vogliamo evidenziare alcune tra le più note citazioni di Tiziano Vecellio (uno degli artisti di punta del XVI secolo) e altri suoi famosi colleghi illustri che attraverso gli aforismi riescono ad imprimere il loro pensiero illuminato.

L’arte secondo Tiziano

Molte delle frasi più celebri di Tiziano sono da estrapolare dalla corrispondenza che ebbe con i contemporanei del suo tempo, tuttavia quella che balza all’attenzione è quella che mette al centro il tema della gratitudine ed è la seguente:

Esiste un proverbio che trovo verissimo essendomi trovato nella medesima circostanza: un gran servizio si suole soddisfare con una grande ingratitudine. Nell’affermazione del pittore di Pieve di Cadore sembra esserci molta amarezza, come se le persone ripagassero la cordialità con totale ingratitudine e probabilmente, dato che è egli stesso a confermarlo, ha provato in prima persona questo brutto torto.

Tuttavia, nei suoi soliti modi di dire, Tiziano non perdeva occasione per esaltare l’arte che amava sopra ogni cosa.

Diceva infatti: L’arte è più potente della natura. Questa non era un’esagerazione, per Tiziano un quadro poteva spostare gli equilibri delle cose, il modo di vedere e di percepire, i colori per lui sono in grado di cambiare e ribaltare la visione stessa del mondo, ecco perché anche la natura poco può con questo modo ispirato di fare arte; la natura fa il mondo e lo plasma continuamente, ma la pittura lo racconta nella sua interezza.

La sua arte al centro di tutto. Amava talmente quello che faceva per vivere che parlava così dei suoi colleghi artisti poco ispirati: Non tutti i pittori hanno un dono per la pittura, infatti molti pittori sono delusi quando incontrano difficoltà nell’arte. Dipingere, fatto sotto pressione da artisti senza il talento necessario, può solo dare origine alla mancanza di forma, poiché la pittura è una professione che richiede la pace della mente. Il pittore deve sempre cercare l’essenza delle cose, rappresentare sempre le caratteristiche e le emozioni essenziali della persona che sta dipingendo.

Leggendo queste parole possiamo immaginare che per Tiziano esisteva una sorta di codice non scritto degli artisti e che il primo punto fosse la devozione per la pittura, non bastava essere bravi a disegnare, quello sanno farlo in molti, bisognava imprimere sulla tela l’anima di chi veniva immortalato.

Talmente era rispettoso dell’arte della pittura, Tiziano si permetteva di dire questo all’amico spagnolo Francesco Vargas: Ho evitato di proposito gli stili di Raffaello e Michelangelo perché ero ambizioso di una distinzione superiore a quella di un imitatore intelligente.

É chiaro il suo proposito, vuole distinguersi da due giganti dell’arte, vuole essere ricordato per il suo stile personale; sarebbe stato sicuramente più comodo andare a riprendere ed imitare le tecniche di Raffaello o Michelangelo, al contrario, Tiziano volle trovare il suo tratto distintivo e col senno di poi possiamo affermare che ci riuscì in piena regola.

Infine, non sarà propriamente un aforisma, ma quello che seguirà è l’estratto di una corrispondenza fra Tiziano e il duca Alfonso di Ferrara datata 1518 dove emerge il lato più umile dell’artista: Signore illustre e mio Signore, ho ricevuto l’altro giorno con la dovuta riverenza la lettera di Vostra Signoria, insieme con la tela e l’inquadratura. Avendo letto e annotato i contenuti, li ho considerati così belli e ingegnosi da non richiedere alcun miglioramento di alcun tipo; e più ci pensavo su e più mi convincevo che la grandezza dell’arte tra gli antichi era dovuta all’assistenza che ricevevano da grandi principi contenti di lasciare ai pittori il merito e la fama che derivano dalla loro ingegnosità nelle immagini d’autore. Posso dunque dubitare che, se Dio mi consente di soddisfare in qualche modo i desideri di Vostra Signoria, avrò tutto il merito del mio lavoro? Eppure, dopo tutto, non ho fatto altro che dare forma a ciò che ha ricevuto il suo spirito, la parte più essenziale. Tanta umiltà, come già detto, mista a reverenza e rispetto nei confronti del duca, ma la parte più interessante della lettera sta forse proprio alla fine, quando Tizano sottolinea che quello che fa un pittore non è altro che dare una forma allo spirito, non soltanto al corpo, e chiude specificando che è proprio lo spirito la parte veramente importante da catturare in un dipinto.

Gli artisti e le loro idee

É chiaro che il mondo degli artisti ci permette di spaziare fra tante belle e significative citazioni; da ogni epoca infatti ci sono state donate frasi che in qualche modo vanno a toccare le corde di chi le riceve, che risuonano quasi come uno stile di vita, un modo di essere, un’idea ben radicata nel pensiero dell’artista di turno e che, inevitabilmente, trascina con sé coloro ai quali è rivolta, perché con la loro semplicità riescono a trovare un largo consenso. Passiamone in rassegna qualcuna che renda meglio il concetto.

Prendiamo Picasso; lui era solito dire: Ogni bambino è un artista. Il problema è come rimanere artisti una volta che si invecchia. Non ricorda molto il pensiero di un certo Pascoli?

Tutti i bambini vedono e sanno stare al mondo da artisti, succede però che si cresce, e forse il giorno in cui si scoprirà come mantenere una mente da fanciullo, allora quel giorno avremo un artista perenne.

E sulla scia di Picasso, anche Matisse fece una riflessione simile: Occorre sapere ancora conservare quella freschezza infantile a contatto con gli oggetti, salvare questa ingenuità.

Evidentemente quello di mantenere in qualche modo una mente il più possibile giovane come può esserlo quella di un bambino, è questione di primaria importanza fra gli artisti; forse la freschezza infantile di cui parla Matisse riguarda la visione del mondo ancora troppo ingenua da parte di un bambino che vede solo il bene e il bello.

E per la serie di tutti coloro che vivono secondo il motto sbagliando si impara, Van Gogh diceva: Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto. In effetti non esiste strada migliore per migliorarsi sempre di più e quella che propone il pittore olandese sarà anche la via più accidentata, ma l’unica veramente efficace.

Un tocco di romanticismo con l’aggiunta di una frecciatina ad un collega. Succedeva anche questo fra artisti. Così si esprimeva Modigliani: Il futuro dell’arte si trova nel viso di una donna… Picasso, come si fa l’amore con un cubo? Fra i due non vi era particolare simpatia e gli stili di pittura, così come i gusti artistici, erano molto differenti e, come abbiamo visto, il pittore italiano non le mandava a dire.

Altrettanto ispirata sembra essere una citazione di Magritte: Ciò che bisogna dipingere è dato dall’ispirazione, che è l’evento in cui il pensiero è la somiglianza stessa. Qui Magritte sembra volerci dire che un dipinto nasce prima come un pensiero, un’idea nella mente del pittore che successivamente la imprime sulla tela.

Concedeteci di chiudere con una citazione che vale anche da caldo consiglio e che ci arriva direttamente da Frida Kahlo: Scegli una persona che ti guardi come se fosse una magia.

Il manierismo nell’arte e la pittura veneziana

Il termine Manierismo viene fatto risalire a Giorgio Vasari, che intorno al 1550 – ritenendo raggiunta la perfezione nell’arte con le opere di Michelangelo, Raffaello e Leonardo – sosteneva che gli artisti successivi non avrebbero potuto migliorare quanto già realizzato e si sarebbero pertanto dovuti rassegnare a imitare i capolavori già esistenti: in pratica, dipingere (o scolpire) alla maniera di. Per Manierismo nell’arte si intende quindi il ripetersi di elementi caratteristici di un artista, di un’epoca o di una scuola, in una sorta di imitazione ma con stili esecutivi differenti, per cui nel tempo abbiamo potuto conoscere artisti che creavano opere utilizzando la maniera antica, moderna, leonardesca, francese e così via.

La corrente artistica del Manierismo

Si definiscono manieristi in particolare quei pittori che nel corso del 1500 e sino all’inizio del secolo successivo ricalcarono le orme dei grandi artisti del Rinascimento, con indubbie capacità personali ma senza l’originaria ispirazione e la genialità che hanno reso immortali e uniche nel monde le opere e gli artisti da cui hanno attinto gli spunti.

Jacopo Pontormo giuseppe egitto
Giuseppe in Egitto – Jacopo Pontormo

Possiamo collocare le origini del Manierismo, che secondo alcuni critici può definirsi la fine del Rinascimento, nelle città che vantavano all’epoca le principali botteghe artistiche, vale a dire Firenze e Roma; nella prima metà del XVI secolo la nuova corrente prende vita nel capoluogo toscano con l’intento di sperimentare nuove forme di arte, mettendo in discussione le regole sino allora esistenti. Si tratta principalmente di pittori estrosi e rivoluzionari, quali il Rosso Fiorentino e Iacopo Carrucci detto il Pontormo, mentre a Roma Daniele da Volterra e Francesco Salviati recepiscono questa ispirazione innovativa. L’espansione della nuova corrente in Italia e all’estero si verifica in concomitanza con il sacco di Roma e con le conseguenti devastazioni operate dai lanzichenecchi nel 1527, a seguito del quale la città si svuota anche degli artisti che vi lavorano e che si sparpagliano per la penisola.

Pochi anni dopo la fine della guerra, con il ripopolamento di Roma e la ripresa delle attività artistiche, le prime opere bizzarre con figure e proporzioni storpiate tornano a uno stile più uniforme e raffinato, mantenendo però rappresentazioni di figure umane in posizioni contorte e colori particolarmente accesi, ispirate di certo alla recente realizzazione della Cappella Sistina da parte di Michelangelo (1535 – 1541).

Il Manierismo non ha riguardato solamente le opere pittoriche, anche se i nomi più rilevanti figurano proprio in qual campo, ma ha interessato anche la scultura; non si possono infatti dimenticare le creazioni di Bartolomeo Ammannati, molte delle quali ispirate agli dèi della mitologia greca, e del Giambologna, del quale ricordiamo il celeberrimo Ratto delle Sabine visibile a Firenze sotto le arcate della Loggia della Signoria. L’esempio di manierismo architettonico forse più rilevante è offerto invece da Giulio Romano, architetto, pittore e allievo fra i più dotati di Raffaello Sanzio, invitato a Mantova alla corte dei Gonzaga per la realizzazione di Palazzo Te tra il 1525 e il 1534. Di questo splendido edificio monumentale il Romano cura sia l’edificazione che la realizzazione degli affreschi interni.

La pittura veneziana

Venezia è città d’arte per antonomasia, oltre che realizzazione architettonica unica al mondo, ed è stata culla e fonte d’ispirazione per artisti d’altissimo livello quali – per citarne solo alcuni e restare nel periodo del Manierismo – Paolo Veronese, Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Lorenzo Lotto e Tiziano Vecellio, da tutti meglio conosciuto con il solo nome di Tiziano.

miracolo san marco schiavo Tintoretto
Il miracolo di san Marco che libera lo schiavo – Tintoretto (1548)

Il Veronese, al secolo Paolo Caliari, nasce a Verona nel 1528 come il suo nome d’arte lascia intuire ma si trasferisce in giovane età a Venezia e già nel 1555 inizia l’impresa più vasta e rilevante della sua vita, vale a dire la decorazione della Chiesa di San Sebastiano nel sestiere di Dorsoduro. Per circa quindici anni il Veronese realizza un imponente ciclo pittorico che interessa i soffitti di chiesa e sacrestia, la navata centrale, il coro dei frati, la pala d’altare e parte del presbiterio: i soggetti sacri ritratti sono molteplici, da episodi della vita di San Sebastiano – compreso il martirio – a scene dell’Antico Testamento, dalla Madonna in gloria alla vita di Ester. Il corpo dell’artista riposa dal 1588, anno della sua morte, all’intero della Chiesa che ospita i suoi capolavori. Artista prolifico sia nel campo degli affreschi che per quanto riguarda le tele, vanta opere esposte nei principali musei del mondo quali la Pinacoteca di Brera, il Louvre, la Galleria degli Uffizi, la Galleria Borghese e l’Ermitage, solo per citarne alcuni. Vale la pena ricordare, a titolo di curiosità, che al Veronese è attribuita la scoperta di uno specifico colore, detto per l’appunto verde Veronese, particolarmente intenso e brillante come tutte le realizzazioni dell’artista.

Jacopo Robusti detto il Tintoretto nasce invece a Venezia intorno alla fine del 1518 (la data esatta non è nota) e trascorre buona parte della sua vita nel capoluogo lagunare. La sua arte emerge già quando, ancora molto giovane, si forma alla bottega del Tiziano come apprendista, ma già nel 1539 lavora in un proprio studio indipendente e si fregia del titolo di “maestro”. Nelle opere della maturità, quali La lavanda dei piedi (Madrid, museo del Prado) e il Miracolo dello schiavo liberato (tuttora a Venezia, Scuola Grande di San Marco) traspare una profonda influenza della scuola romana, in particolare di Michelangelo, con imponenti chiaroscuri e una diffusione della luce che trasmette sacralità. Negli anni successivi, il Tintoretto sviluppa un personale concetto di prospettiva eliminando la proporzionalità classica e contrapponendo figure molto grandi nei primi piani con immagini ridottissime verso lo sfondo, creando un effetto più ritmico e visionario. Nel corso della sua lunga vita, almeno secondo i canoni dell’epoca, produce prima della sua morte avvenuta nel 1594 moltissime opere pittoriche esposte oggi nelle principali gallerie mondiali.

Lorenzo Lotto, veneziano di nascita e pertanto ricompreso di diritto nel novero degli artisti lagunari, in realtà lavora ben poco a Venezia anche a causa della presenza ingombrante di altri nomi importanti e in particolare del Tiziano, che lo portano ad una sorta di emarginazione artistica. Decide quindi di portare le sue qualità fuori dai confini della Serenissima, in zone considerate allora marginali dal punto di vista pittorico quali per esempio Bergamo e le Marche; la formazione presso le scuole degli artisti veneziani gli lascia comunque un’eredità che il Lotto esporta nei luoghi in cui viene chiamato a dipingere. Dopo alcuni anni a Treviso, dove riscuote i primi successi personali, i frati domenicani di Recanati gli commissionano il polittico per la Chiesa di San Domenico e il Lotto si sposta così nelle Marche. Nel 1509 papa Giulio II lo convoca a Roma per le decorazioni dei suoi appartamenti nel palazzi Vaticani, ma l’artista fatica ad integrarsi con la realtà romana ed il confronto con gli altri grandi artisti rinascimentali che la affollavano e lascia per questo la città per non farvi più ritorno. Dal 1513 si trasferisce a Bergamo per eseguire una pala d’altare per i frati domenicani, la pala Martinengo, e rimane nella città lombarda per ben tredici anni realizzando numerose altre opere ora esposte in musei prestigiosi quali gli Uffizi di Firenze. Dopo la lunga pausa bergamasca, l’artista torna sia nelle Marche che nella natìa Venezia, dove muore nel più assoluto silenzio in un giorno di luglio 1557.

Anche la data di nascita di Tiziano Vecellio è incerta, potendosi inquadrare tra il 1488 e il 1490, mentre il luogo è Pieve di Cadore fra la montagne bellunesi. Già nei primi anni del 1500 la sua ardente passione per l’arte lo spinge a Venezia per ricevere un’adeguata istruzione pittorica, e prima dei vent’anni è a fianco del pittore Giorgione nella realizzazione del Fondaco dei Tedeschi, prestigioso palazzo della Serenissima. La sua fama si espande rapidamente e gli incarichi si susseguono, fino a divenire nel 1533 pittore ufficiale della Repubblica di Venezia, con tanto di rendita ufficiale riservata ai migliori pittori; in poco tempo la sua arte lo porta anche oltre i confini della città, contesto dai Gonzaga e dagli Este, dai duchi urbinati e dal papa Paolo III. La sua biografia lo descrive come un lavoratore instancabile, e pertanto accetta gli incarichi che gli vengono proposti spostandosi da Mantova a Ferrara, da Urbino a Roma, realizzando una lunga serie di opere anche come ritrattista. Data la sua fama, molti potenti dell’epoca chiedono a Tiziano un ritratto come status symbol della loro grandezza, e l’artista ha così modo di immortalare – tra gli altri – il papa Paolo III ormai anziano con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese, Carlo V d’Asburgo, Federico II Gonzaga, Isabella d’Este e Eleonora Gonzaga Della Rovere.

Noli me tangere il quadro di Tiziano Vecellio

Noli me tangere. “Che nessuno mi tocchi”. È questo il titolo del dipinto, oggi conservato presso la National Gallery di Londra, realizzato da Tiziano intorno al 1514. Un olio su tela che, verso il 1648, venne visto da Carlo Ridolfi, biografo di pittori veneti vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, nella collezione Muselli di Verona e che, nel 1727, entrò a far parte dei dipinti della collezione di Luigi I Duca d’Orléans. Dopo alcuni documentati passaggi di mano, giunse nel museo londinese nel 1856 con il lascito di Samuel Rogers e rappresentò una delle prime opere di Tiziano presenti nel nascente museo.

La fedele trascrizione dalle fonti letterarie

Come di consueto nella sua lunga parabola artistica, Tiziano aderisce in modo puntuale alla fonte da cui trae ispirazione, tant’è che, come vedremo più avanti, essa giunge a influenzare notevolmente la composizione.

Nel Noli me tangere, il pittore cadorino si rifà al vangelo di Giovanni (20, 14-18) che dice: “[la Maddalena] Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era lui. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella, allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì”, che significa “Maestro”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.

Noli me tangere della National Gallery di Londra: verso un nuovo dinamismo

Tiziano Noli me TangereSu un paesaggio asolano immerso nella tiepida calura di un tramonto veneto, si stagliano le figure di Cristo, raffigurato con le fattezze e l’attributo di un giardiniere, e della Maddalena che, riversa per terra dopo aver riconosciuto il suo Salvatore, tende una mano verso un lembo del manto bianchissimo di Gesù. La posa di questa ricordano molto da vicino lo scorcio della donna affrescata da Tiziano nel Miracolo del marito geloso, una scena del ciclo dei Miracoli di Sant’Antonio da Padova nella scuola del Santo (1511).

Sulla quinta del Noli me tangere, invece, il nugolo di casamenti arroccato è praticamente interscambiabile con quello della Venere di Dresda dipinto da Giorgione nel 1510. Sulla base di tale somiglianza, la critica ha stabilito che il pittore nativo di Cadore dovette mettere le mani, ritoccandolo, il dipinto della Venere dormiente.

Nel corso del secondo decennio del Cinquecento, la calma e la serena imperturbabilità della pittura di Tiziano virano verso gesti e composizioni più dinamiche e di una maggiore robustezza formale (si vedano, nell’opera in questione, i rapporti proporzionali delle membra di Cristo). S’innestano, inoltre, episodi di straordinaria quiete meditativa. Questo percorso sembra prendere le mosse proprio dal dipinto londinese. L’analisi ai raggi X, infatti, ha dimostrato che la prima stesura della composizione presentava variazioni sensibili rispetto al prodotto finale, con Cristo che, di spalle alla Maddalena, sembrava voler uscire, con violenza, dall’inquadratura del dipinto. In nome di una più spiccata partecipazione emotiva che tenesse anche conto del testo scritto cui l’opera rimanda, Tiziano propende verso un rapporto comunicativo tra i due soggetti e lo fa ponendo in controparte la figura del San Giovanni Battista dipinta da Sebastiano del Piombo nella Pala di San Giovanni Crisostomo (1510-1511).

Siamo quindi in presenza di una struttura compositiva concentrata e trattenuta, accompagnata da una larghezza di forme colorate arginate dalla luce. Una conquista, quest’ultima, che già si evidenzia negli affreschi del Fondaco dei tedeschi a Venezia e i già citati lavori di Padova.

Inoltre, a testimoniare l’avvio di un percorso nuovo, basterà osservare da vicino le pieghe minutamente strizzate della veste della Maddalena, la trasparenza spumante dei veli bianchi, la magnificenza dei colori e il fraseggio che s’instaura tra i colori terrosi e l’azzurro che digrada in lontananza. Tali qualità non trovano alcun corrispettivo nelle opere precedenti ma dialogano, semmai, con la Sacra famiglia con un pastore (sempre nella National Gallery di Londra) e con il Tobiolo e l’Angelo dipinto per la famiglia Bembo.

1510-1516. La tecnica pittorica di Tiziano nella fase post-giorgionesca

Il Noli me tangere rientra tra le opere dipinte dal pittore cadorino subito dopo aver conquistato una propria autonomia ed essersi sganciato dal magistero di Giorgione. In questa fase, il pittore usa grandi quantità di colore steso in numerose e talvolta spesse pennellate fino a costruire il tono cromatico desiderato.

Una costante delle opere giovanili sino alla prima maturità è quella di intensificare il colore mediante l’uso di smalti: le pennellate trasparenti, infatti, sono rese più vibranti e sature di colore con l’aggiunta di verde, blu e rosso. Tali addizioni, stese su strati di colore chiaro, aumentano la ricchezza del tono senza perdere in brillanza, conferendo profondità alle aree in cui sono stese.

L’analisi ai raggi X ha dimostrato che non esiste un disegno alla base dell’opera e tanto meno un piano di esecuzione, tant’è che, come abbiamo già avuto modo di vedere, la prima stesura fu cambiata in corso d’opera per far sì che il dipinto fosse una trascrizione puntuale della fonte scritta. La stessa analisi rivela che Tiziano costruiva la figurazione per sovrapposizione degli elementi figurativi creati non solo in obbedienza alle regole prospettiche ma anche in base al gusto cromatico del pittore. Dunque, procedendo dall’azzurro del cielo campito dalle nuvole, il pittore procede per addizioni stratigrafiche di colore sino a giungere al piano d’osservazione più vicino all’osservatore.

Tiziano Vecellio e la pittura del 500

Come visto nella mostra dedicata a Brescia a questo straordinario pittore, opportunamente chiamata Tiziano e la pittura del Cinquecento, l’eredità di questo artista e della sua corrente artistica ha lasciato importantissime tracce nella cultura collettiva e nelle arti figurative che tuttora caratterizzano questo Paese, soprattutto sul piano stilistico ma anche per quanto riguarda i soggetti e la caratteristica di produrre quadri per certi versi misteriosi. Il numero di manifestazioni che tuttora vengono dedicate a questo maestro testimonia la sua importanza e la sua rilevanza. Una delle grandi aree di interesse della corrente di Tiziano è certamente quella della devozione privata. Proprio in questi momenti intimi Tiziano trova la sua massima espressione, scegliendo perciò di prediligere i piccoli attimi significativi rispetto alle ampie celebrazioni, che però non hanno la stessa forza dal punto di vista emotivo. Con questi precetti, Tiziano ha letteralmente rimodellato il panorama artistico e pittorico del 1500, influenzandolo e stabilendo alcuni standard che sarebbero stati ripresi dagli artisti a lui contemporanei e successivi.

Tiziano: vita e opere di un mito dell’arte italiana

Tiziano Vecellio nasce nella città italiana di Pieve di Cadore alla fine degli anni Ottanta del quindicesimo secolo. Il padre, Gregorio Vecellio, aveva diversi incarichi in giro per la città. Quando Tiziano era solo un adolescente, viene però mandato a studiare pittura nella città di Venezia sotto le ali protettive del grande maestro rinascimentale Giovanni Bellini. È proprio nella bottega di Bellini che Tiziano conosce molti pittori locali, in particolare Giorgio da Castelfranco, noto con il nome di Giorgione.

Dopo che Tiziano lascia la scuola di Bellini nel 1507, collabora con Giorgione a vari progetti. Sfortunatamente, molti degli affreschi di Tiziano e Giorgione a Venezia sono stati completamente distrutti a causa del maltempo. Durante questo periodo, apparentemente c’era una grande quantità di rivalità tra i due pittori, un’acredine che si intensifica nel momento in cui i locali iniziano a notare lievi differenze tra gli stili dei due artisti. Nei primi anni del Cinquecento, lo stile pittorico di Tiziano era ancora molto in debito con Giorgione, il che rende estremamente difficile per i critici d’arte attribuire chiaramente ad uno dei due artisti l’autorialità di un’opera.

Non è stato fino alla quindicina d’anni compresa tra il 1515 ed il 1530 che Tiziano è riuscito a stabilire il suo approccio unico al mondo, con dipinti quali Noli me tangere. A quel tempo, sia Giorgione che Bellini erano morti, il che rese immediatamente Tiziano l’artista più famoso di tutta Venezia, praticamente senza alcuna concorrenza. È a questo punto che Tiziano inizia a diventare più audace sia con la dimensione dei suoi dipinti che con le sue pennellate più aggressive. Durante questo periodo Tiziano produce forse la sua opera più celebre: l’Assunzione della Vergine. Completato in soli due anni, questa massiccia pala d’altare della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari è suddiviso in tre sezioni: gli apostoli a terra guardano verso la Vergine Maria centrale mentre gli angeli la sollevano verso Dio in alto. La dimensione e l’uso sorprendente dei colori cementano il nome di Tiziano per sempre a maestro dell’arte rinascimentale italiana.

Tiziano è noto in particolare per aver rotto con la convenzione di morbidi affreschi alla moda con artisti come facevano specialmente i Bellini. Invece, Tiziano preferiva i dipinti a olio su tela, come esempio è l’incoronazione di spine, e usava le pennellate e i colori per esprimere emozioni attraverso la pittura piuttosto che solo le scene rappresentate. Molte delle tele ad olio di Tiziano gocciolano con opulenza e sensualità tutte veneziane, grazie in gran parte alla sua abile descrizione della pelle umana. In effetti, la grande tradizione del nudo nella pittura ad olio occidentale mostra un evidente debito nei confronti di Tiziano.

Prendendo un solo esempio, lo scandaloso dipinto francese di Manet che ritrae una prostituta di Olimpia (datato 1863) è stato direttamente modellato sulla Venere di Urbino realizzato nel 1538 da Tiziano. Nonostante Tiziano Vecellio sia morto nel 1576, la sua importanza per l’arte occidentale non ha fatto che aumentare con il passare del tempo. Per menzionare solo alcuni degli artisti che devono moltissimo al lavoro di Tiziano basta ricordare i nomi di Rembrandt, El Greco e Peter Paul Rubens. Insieme a Bellini, Tintoretto e Giorgione, Tiziano rappresenta uno dei geni indiscussi dell’arte veneziana e del Cinquecento intero.

Gli altri pittori del Cinquecento: i fratelli Bellini

La coppia formata dai fratelli Bellini, Giovanni e Gentile, si inserisce in un contesto già particolarmente favorevole, ossia in un’importante famiglia di artisti. Il padre, Jacopo, infatti è uno dei fondatori dello stile pittorico rinascimentale a Venezia e in tutto il Nord Italia. In questo senso egli influenza in maniera significativa le prime opere realizzate dai suoi figli. Da notare anche il fatto Andrea Mantegna, artista di corte presso la famiglia nobile dei Gonzaga, era cognato di Giovanni e Gentile Bellini.
Giovanni nasce a Venezia nel 1430 e nel corso della vita diventa uno dei più influenti artisti veneziani. Nella città lagunare, Giovanni trascorre gran parte dei suoi giorni nel corso di una carriera durata oltre sessantacinque anni. Al giorno d’oggi è ricordato soprattutto per l’uso davvero innovativo della palette di colori ad olio al fine di veicolare luce e colore, nonché per i ritratti creativi e per l’attenzione ai dettagli che pone nel delineare il paesaggio.

Tintoretto, Veronese e l’eredità della grande scuola veneziana

Nato a Venezia nel 1518 Jacopo Comin, noto ai giorni nostri con il nome Tintoretto, rappresenta una figura immensa di quel che conosciamo come Rinascimento veneziano. Le opere di questo grande pittore si caratterizzano per la presenza di figure muscolose e importanti, scenografici gesti ricchi di dramma. L’uso audace della prospettiva richiama i successivi manierismi dei secoli che saranno, al contempo mantenendo i tipici colori e tratti luminosi che caratterizzano la scuola del Cinquecento ed in particolare del veneziano. Tintoretto infatti vive ed opera per la maggior parte della propria vita nell’area di Venezia, di fatto subendo in maniera profonda l’influenza del grande Tiziano. Dopo la morte di quest’ultimo è proprio Tintoretto a divenire, assieme a Paolo Veronese, che vedremo di seguito, uno dei principali pittori della città, nonché responsabile di un grande laboratorio per la formazione di giovani artisti. Nello specifico, a Tintoretto vengono affidate un discreto numero di commissioni per il Palazzo Ducale e per un ciclo speciale di dipinti da inserire nella Scuola di San Rocco.
Oltre a pittori come Tiziano e Tintoretto, il grande Paolo Veronese, originario di Verona dove nasce nel 1528, si impone definitivamente sulla scena veneta, portando a compimento quel miracolo pressoché irripetibile che sarà questo secolo per lo stile pittorico della regione settentrionale italiana. Proprio assieme a Tintoretto e Tiziano, si forma un trio che governa la pittura veneziana del secolo. In particolare, Paolo Veronese è noto per i dipinti sviluppati su grande formato di soggetti religiosi e mitologici, inserendo particolari effetti che fanno assomigliare il dipinto ad una scena teatrale. L’approccio alla composizione, molto influenzato da Tiziano, risulta quasi più armonioso di quello dei suoi contemporanei, di fatto avvicinandone la produzione al manierismo.

La Venere di Urbino di Tiziano

La Venere di Urbino è una delle opere d’arte più importanti del XVI secolo; rientra a tutti gli effetti nell’etile delle opere di olio su tela conservate al museo degli Uffizi di Firenze. Il suo artista è, appunto, Tiziano Vecellio.

Chi era Tiziano Vecellio? Alcuni cenni

Tiziano Vecellio nacque a Pieve di Cadore approssimativamente tra il 1488 e il 1490; pittore di estremo talento, Tiziano fu, insieme a Giorgione, uno dei padri del tonalismo, una particolare tecnica tipica della tradizione artistica Veneziano-Veneta legata ad un nuovo modo di percepire il colore, in antitesi con la più classica tecnica di scuola fiorentina.

Morì a Venezia nel 1576 e, a conti fatti, avendo vissuto una vita relativamente lunga, ed essendo vissuto a cavallo tra due secoli, è inevitabile che abbia risentito di più influenze artistiche. Vi sono opere dove è evidente lo stile tipico rinascimentale, tuttavia, negli anni della maturità, non riuscì a sottrarsi al fascino della novità portata dal manierismo, con evidenti rimandi alle forme classiche, e allo stesso Michelangelo, filtrati attraverso la sua personale tecnica del colore.

La storia della Venere di Urbino

Considerata da molti esperti come l’opera di punta dei lavori di Tiziano e probabilmente, in ambito di nudo femminile, uno dei dipinti più conosciuti, la Venere di Urbino viene fatta risalire intorno al 1538 e porta con sé una storia non priva di ribaltoni.

Tutto ebbe inizio con Guidobaldo II Della Rovere, duca di Urbino, che, secondo sua madre Eleonora Gonzaga, per puro capriccio inviò il suo agente in quel di Venezia alla ricerca di un nudo femminile realizzato da Tiziano. Tuttavia le cose non andarono secondo i piani di Guidobaldo perchè per acquistare il dipinto egli necessitava dell’aiuto economico della madre che, dal canto suo, non volle assecondare la richiesta del figlio, così l’opera rimase parcheggiata nella bottega di Tiziano con la promessa che, una volta reperiti i soldi, il duca avrebbe pagato anche più di quanto richiesto dall’artista. Passarono dei mesi e finalmente Guidobaldo riuscì nel suo intento e portò il dipinto ad Urbino dove lo utilizzò per educare alla giusta virtù la sua giovane moglie, sposata per interessi politici, Giulia da Varano (sposata quando aveva soltanto dieci anni ma adolescente all’epoca dell’acquisto del dipinto) per convincerla, tramite il messaggio simbolico che l’arte porta sempre con sé, ad accettare quella conveniente unione senza rinunciare agli aspetti amorosi, ricordandole in questo modo i suoi doveri coniugali. Il quadro, spinto anche dalla vicenda di Guidobaldo, ottenne un notevole successo, tanto che Tiziano e altri artisti veneziani, furono costantemente sollecitati a riprodurne delle repliche.

Passa poco meno di un secolo e l’ultima discendente di Guidobaldo, Vittoria, sposa Ferdinando II de’ Medici; questo comportò, tra le altre cose, il trasferimento di importanti opere d’arte da Urbino a Firenze, tra cui la stessa Venere che intorno alla metà del XVII secolo passò per la villa di Poggio Imperiale per poi trovare la sua definitiva collocazione alla galleria degli Uffizi dal 1694.

Tra tonalismo e simbolismo. La Venere di Urbino senza veli

Ogni artista ha la sua musa e Tiziano non fa differenza, anzi, esistono molti sostenitori della teoria secondo la quale l’attenzione che Tiziano ebbe nel dipingere i capelli ricci di Venere possa fare intuire che la modella aveva una relazione con l’artista. Infatti passando in rassegna alcune delle sue opere, notiamo più di una somiglianza tra questa Venere e altre protagoniste dei suoi dipinti; per la Venere di Urbino Tiziano utilizzò la stessa modella che ritroviamo nella Bella, custodita a Palazzo Pitti e anche nella Fanciulla in pelliccia che si trova a Vienna. Ad oggi non si conosce ancora la vera identità della modella.

A nominare l’opera Venere di Urbino fu Giorgio Vasari perchè era improponibile il titolo di Donna nuda affibiatogli da Guidobaldo. Era infatti una consuetudine mascherare la nudità con la mitologia ed effettivamente Venere ha tutto un altro suono rispetto a un semplice donna nuda. Ma perchè proprio di Urbino? Facendo attenzione allo sfondo, si può notare il loggiato con la colonna che rappresenta un angolo del Palazzo Ducale di Urbino e questo fa supporre che l’opera fu commissionata proprio per le nozze di un importante membro della casata dei Montefeltro.

La venere di Urbino nel dettaglio

Andiamo al quadro nel suo dettaglio. L’opera appartiene a quella categoria di dipinti realizzati con la tecnica del tonalismo ed è opinione condivisa da molti il fatto che il dipinto nasca come regalo di nozze e colei che è raffigurata sia proprio la sposa; tutto il dipinto, del resto, può essere inquadrato come una grande allegoria del matrimonio. La nudità della moglie in primo piano non fa che esaltare la bellezza femminile e il suo buono stato di salute che indica quasi un buon auspicio per mettere al mondo tanti figli. É una Venere nuda sul letto che regge un piccolo mazzolino di fiori sulla mano destra, che vogliono significare quanto la bellezza sia effettivamente effimera e il tempo la fa sfiorire, ma nonostante ciò, questo non deve avere ripercursioni sul significato più profondo del matrimonio; e usa la mano sinistra per coprirsi il pube; questo gesto riporta alla mente la più classica Venus pudica intenta a coprire le parti intime, mostrando così la sua parte più umana; soprattutto guarda direttamente chi la osserva senza alcuna vergogna, cosa non molto comune.

Le lenzuola ancora stropicciate possono fare intendere il passaggio del fidanzato, mentre è giusto sottolineare la presenza di due sfondi ben diversi tra loro: sulla sinistra, a coprire dal pube in sù, una sorta di muro scuro che fa da contrasto, sulla destra, ai colori più vivaci e che rievocano una scena di vita domestica. Ai piedi del letto un cagnolino non privo di significato: il cane è da sempre l’animale fedele per eccellenza, così facendo Tiziano promuove la donna a moglie fedele. E, se volessimo combinare insieme la figura del cane (che rappresenta la fedeltà come abbiamo già detto), con l’anello che Venere porta sul mignolo sinistro, simbolo di purezza, ne viene fuori un messaggio molto chiaro indirizzato alla sposa di Guidobaldo, Giulia da Varano: va bene essere sensuale, purché questa sensualità sia rivolta interamente al marito.

Passiamo allo sfondo. Quella che propone Tiziano è una scena di vita ordinaria con due ancelle di Venere che preparano i vestiti per la dea, forse in occasione di una festa; quella chinata con la testa quasi dentro la cassapanca è una bambina che rappresenta, anche qui, l’augurio per le future nascite ma soprattutto fa passare il messaggio che l’attività sessuale, che non può mancare nella vita matrimoniale, debba essere consumata tra le mura domestiche; l’altra donna, in piedi, ha già un vestito sulla spalla e osserva l’operato della bambina, del resto, proprio come farebbe una madre. Sullo sfondo non passa inosservato neanche il mirto, simbolo di verginità che è tra le caratteristiche tipiche della mitologia romana, anche se, dobbiamo ammetterlo, quello che porta la mente a pensare alla protagonista come ad una dea è soltanto il nome del dipinto, perché la giovane donna, al contrario, nel suo modo di essere sembra molto umana, molto lontana da tutti quelli che sono i classici canoni di riconoscimento di una divinità; le ancelle sullo sfondo elevano la protagonista a donna di un certo ceto sociale pronta per un evento mondano ma viene difficile pensare ad essa come si pensa alla dea della bellezza.

L’incoronazione di spine di Tiziano

L’Incoronazione di spine fu un tema molto caro a Tiziano, tant’è che fornì, a distanza di circa trentanni di distanza, due interpretazioni completamente differenti dello stesso soggetto. Il primo, conservato al Museo del Louvre di Parigi, è databile al biennio 1542-1543, mentre il secondo, del 1576 circa, si conserva nella Alte Pinakothek di Monaco.

Il soggetto di questo dipinto di Tiziano

incoronazione spineEntrambi gli esemplari si rifanno a un episodio della vita di Gesù narrato nei Vangeli di Matteo (27:29), Marco (15:17) e Giovanni (19:2) e fa riferimento alle umiliazioni patite dal Salvatore e perpetrate dagli sgherri romani.

Tra le fonti che narrano la vicenda, però, Tiziano sembra attingere particolarmente a Marco, nel cui vangelo si legge: “i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: “Salve, re dei Giudei!”.

E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui”. In entrambe le Incoronazioni, infatti, oltre al gesto di collocare la corona di spine sul capo di Cristo, vediamo due aguzzini inginocchiarsi e prendersi beffa del condannato.

La storia del dipinto l’incoronazione di spine

La prima Incoronazione di spine, quella degli anni Quaranta del XVI secolo, è un olio su tela dalle dimensioni imponenti (siamo sui 303 x 180 cm) e fu commissionata al pittore cadorino dalla Confraternita della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove ornò la l’altare maggiore della Cappella della Santa Corona sino al 1797, momento in cui entrò a far parte delle collezioni reali francesi.
L’opera si colloca nella fase degli anni 1530-1550: gli elementi caratteristici di questo periodo sono stati individuati dalla critica in un’ipotetica “crisi manieristica” e nell’irrefrenabile ascesa alla fama internazionale. A tal proposito, si pensi solo che, in questo ventennio, Tiziano ricevette commissioni ufficiali da Federico Gonzaga, duca di Mantova, da Francesco Maria I duca di Urbino, sino a ritrarre Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero.

Il nuovo Apelle, dunque, era ormai all’apice della sua carriera quando dipinse l’Incoronazione oggi al Louvre. Contro un arco costruito a bugnato rustico e ornato, nella lunetta, dal busto imperiale di Tiberio, Tiziano mette in atto una scena in cui la tensione espressiva è tutta dominata dalle diagonali sperticate delle canne impugnate dai soldati. Le figure, maestose e possenti, esibiscono una muscolatura ben disegnata che strizza l’occhio alla cultura disegnativa toscana e romana. Al pathos così vivido contribuisce anche la torsione, di michelangiolesca memoria, delle membra di Cristo, figura serpentinata e arrovellata a S ribaltata. Questa energia infiammata ma trattenuta è, tuttavia, sapientemente smorzata ricorrendo a un duplice espediente. Da un lato, l’ambientazione classicheggiante che riecheggia certe creazioni mantovane di Giulio Romano (studiato a Mantova sin dal 1536); dall’altro, le continue riflessioni che Tiziano conduce sulle potenzialità dell’impasto caldo del colore, impiegando una tavolozza ridotta all’essenziale anche per rispondere in modo programmatico e rapido alle commissioni. La tecnica pittorica è già condotta al minimo e Tiziano si avvale di pochi pigmenti impiegati solo per il loro cromatismo, senza ricercare effetti di sovrapposizioni e trasparenze, che invece sono dettagli tipici delle sue opere precedenti. Dunque, l’Incoronazione di Santa Maria delle Grazie, più che emblema della supposta “crisi manieristica” formulata da Rodolfo Pallucchini, pure grande conoscitore dell’opera di Tiziano, rappresenta il frutto dell’assimilazione originale del manierismo tosco-romano, rivelando, quasi ce ne fosse ancora bisogno, le capacità di un pittore alla ricerca furente e insaziabile di aggiornamenti e aperture sul presente.

Intorno al 1570, il pittore più ambito d’Europa, riprende il tema e l’impaginazione compositiva del dipinto del Louvre, rispetto al quale, l’Incoronazione di spine di Monaco è leggermente più piccola (280 x 182 cm). In questa seconda occasione, tuttavia, il pittore rivela la tara del suo percorso evolutivo tutto rivolto alla lezione del colore. La scena, come nella precedente versione, è sì inquadrata in un fondo architettonico ma, questa volta, scompaiono tutte le citazioni classiche e antiche per lasciare posto a un semplice arco da cui si traguarda un cielo fosco e percorso da nubi. In alto a destra, quasi a rompere l’oscurità crescente, compare un lampadario che illumina la drammatica scena. Il rigore disegnativo e il plasticismo dell’Incoronazione degli anni quaranta sono sostituiti da una stesura rapida e vibrante del colore, ora quasi abbozzato e disposto direttamente a macchie sul supporto. La tavolozza cromatica presenta la sola gamma dei bruno-dorati che, se da lontano vuole quasi gareggiare con un monocromo, a una visione più attenta e lenticolare rivela infinite sfumature accese impastando il colore con la luce. Una tecnica rivoluzionaria che verrà utilizzata dall’anziano maestro in tutta la sua produzione estrema per accentuare gli esiti drammatici, le tensioni espressive e le riflessioni emotive; una tecnica, inoltre, che attraverserà i secoli, dalla produzione barocca all’onda lunga del settecentesco neo-venetismo in chiaro, sino agli Impressionisti e oltre.
Da alcune notizie riportate da Ridolfi e Boschini, sappiamo che la tela, facente parte dell’eredità di Tiziano, in seguito alla dispersione del patrimonio seguita alla sua morte, passò a Jacopo Tintoretto e da lui al figlio Domenico.

L’evoluzione dello stile di Tiziano

In un ipotetico museo immaginario, nel quale poter mettere liberamente a confronto le due Incoronazioni, si noterebbe come, nel corso di trent’anni, il pittore di Cadore sia passato da una manifesta concitazione manieristica a una rappresentazione sì patetica ma più interiorizzata. Paradigma di tale mutamento è l’espressione stessa di Cristo, intrisa di dolore nella prima versione, muta e rassegnata, ma non per questo meno drammatica, nell’Incoronazione monacense.