L’Incoronazione di spine fu un tema molto caro a Tiziano, tant’è che fornì, a distanza di circa trentanni di distanza, due interpretazioni completamente differenti dello stesso soggetto. Il primo, conservato al Museo del Louvre di Parigi, è databile al biennio 1542-1543, mentre il secondo, del 1576 circa, si conserva nella Alte Pinakothek di Monaco.
Il soggetto di questo dipinto di Tiziano
Entrambi gli esemplari si rifanno a un episodio della vita di Gesù narrato nei Vangeli di Matteo (27:29), Marco (15:17) e Giovanni (19:2) e fa riferimento alle umiliazioni patite dal Salvatore e perpetrate dagli sgherri romani.
Tra le fonti che narrano la vicenda, però, Tiziano sembra attingere particolarmente a Marco, nel cui vangelo si legge: “i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: “Salve, re dei Giudei!”.
E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui”. In entrambe le Incoronazioni, infatti, oltre al gesto di collocare la corona di spine sul capo di Cristo, vediamo due aguzzini inginocchiarsi e prendersi beffa del condannato.
La storia del dipinto l’incoronazione di spine
La prima Incoronazione di spine, quella degli anni Quaranta del XVI secolo, è un olio su tela dalle dimensioni imponenti (siamo sui 303 x 180 cm) e fu commissionata al pittore cadorino dalla Confraternita della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove ornò la l’altare maggiore della Cappella della Santa Corona sino al 1797, momento in cui entrò a far parte delle collezioni reali francesi.
L’opera si colloca nella fase degli anni 1530-1550: gli elementi caratteristici di questo periodo sono stati individuati dalla critica in un’ipotetica “crisi manieristica” e nell’irrefrenabile ascesa alla fama internazionale. A tal proposito, si pensi solo che, in questo ventennio, Tiziano ricevette commissioni ufficiali da Federico Gonzaga, duca di Mantova, da Francesco Maria I duca di Urbino, sino a ritrarre Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero.
Il nuovo Apelle, dunque, era ormai all’apice della sua carriera quando dipinse l’Incoronazione oggi al Louvre. Contro un arco costruito a bugnato rustico e ornato, nella lunetta, dal busto imperiale di Tiberio, Tiziano mette in atto una scena in cui la tensione espressiva è tutta dominata dalle diagonali sperticate delle canne impugnate dai soldati. Le figure, maestose e possenti, esibiscono una muscolatura ben disegnata che strizza l’occhio alla cultura disegnativa toscana e romana. Al pathos così vivido contribuisce anche la torsione, di michelangiolesca memoria, delle membra di Cristo, figura serpentinata e arrovellata a S ribaltata. Questa energia infiammata ma trattenuta è, tuttavia, sapientemente smorzata ricorrendo a un duplice espediente. Da un lato, l’ambientazione classicheggiante che riecheggia certe creazioni mantovane di Giulio Romano (studiato a Mantova sin dal 1536); dall’altro, le continue riflessioni che Tiziano conduce sulle potenzialità dell’impasto caldo del colore, impiegando una tavolozza ridotta all’essenziale anche per rispondere in modo programmatico e rapido alle commissioni. La tecnica pittorica è già condotta al minimo e Tiziano si avvale di pochi pigmenti impiegati solo per il loro cromatismo, senza ricercare effetti di sovrapposizioni e trasparenze, che invece sono dettagli tipici delle sue opere precedenti. Dunque, l’Incoronazione di Santa Maria delle Grazie, più che emblema della supposta “crisi manieristica” formulata da Rodolfo Pallucchini, pure grande conoscitore dell’opera di Tiziano, rappresenta il frutto dell’assimilazione originale del manierismo tosco-romano, rivelando, quasi ce ne fosse ancora bisogno, le capacità di un pittore alla ricerca furente e insaziabile di aggiornamenti e aperture sul presente.
Intorno al 1570, il pittore più ambito d’Europa, riprende il tema e l’impaginazione compositiva del dipinto del Louvre, rispetto al quale, l’Incoronazione di spine di Monaco è leggermente più piccola (280 x 182 cm). In questa seconda occasione, tuttavia, il pittore rivela la tara del suo percorso evolutivo tutto rivolto alla lezione del colore. La scena, come nella precedente versione, è sì inquadrata in un fondo architettonico ma, questa volta, scompaiono tutte le citazioni classiche e antiche per lasciare posto a un semplice arco da cui si traguarda un cielo fosco e percorso da nubi. In alto a destra, quasi a rompere l’oscurità crescente, compare un lampadario che illumina la drammatica scena. Il rigore disegnativo e il plasticismo dell’Incoronazione degli anni quaranta sono sostituiti da una stesura rapida e vibrante del colore, ora quasi abbozzato e disposto direttamente a macchie sul supporto. La tavolozza cromatica presenta la sola gamma dei bruno-dorati che, se da lontano vuole quasi gareggiare con un monocromo, a una visione più attenta e lenticolare rivela infinite sfumature accese impastando il colore con la luce. Una tecnica rivoluzionaria che verrà utilizzata dall’anziano maestro in tutta la sua produzione estrema per accentuare gli esiti drammatici, le tensioni espressive e le riflessioni emotive; una tecnica, inoltre, che attraverserà i secoli, dalla produzione barocca all’onda lunga del settecentesco neo-venetismo in chiaro, sino agli Impressionisti e oltre.
Da alcune notizie riportate da Ridolfi e Boschini, sappiamo che la tela, facente parte dell’eredità di Tiziano, in seguito alla dispersione del patrimonio seguita alla sua morte, passò a Jacopo Tintoretto e da lui al figlio Domenico.
L’evoluzione dello stile di Tiziano
In un ipotetico museo immaginario, nel quale poter mettere liberamente a confronto le due Incoronazioni, si noterebbe come, nel corso di trent’anni, il pittore di Cadore sia passato da una manifesta concitazione manieristica a una rappresentazione sì patetica ma più interiorizzata. Paradigma di tale mutamento è l’espressione stessa di Cristo, intrisa di dolore nella prima versione, muta e rassegnata, ma non per questo meno drammatica, nell’Incoronazione monacense.